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Biennale 2017: quel che resta di due giorni vissuti ad arte

Scarpe vaso di fiori

Data la giornata piovosa, iniziamo la nostra visita alla vernice della 57ª biennale d’Arte di Venezia dalla mostra all’Arsenale: lo stesso pensiero devono averlo avuto in molti, da quanto era affollata. La mostra è organizzata in sette grandi temi-spazi (chiamati padiglioni della Terra, delle Tradizioni, dei Colori, del Tempo…) che tutti insieme vogliono far passare il messaggio che l’arte è viva e lotta con noi. Il filo che collega i temi tra loro vuole essere il rapporto che l’artista ha con il mondo. Argomento interessante anche se, come avvenuto nelle precedenti edizioni, eccettuata quella del 2015 che aveva un tema più specifico, con titoli come Viva Arte Viva ci si può infilare un po’ di tutto.

Diciamo che non c’è qualcosa che colpisca subito per la sua originalità o messaggio, ma che è tutto l’insieme delle opere e installazioni a dare un senso al percorso. Quindi troviamo l’artista che lavora con abiti usati, quello che con stoffe vecchie ci fa libri d’artista, quello che tesse un mondo attraverso i fili, quello che ricicla vecchie All star facendone vasi da fiori e chi fa un muro di gomitoloni di lana colorata. Oppure c’è chi lavora con le pietre (niente di strano) e chi fa una parete di vecchie musicassette. Tanti o forse troppi e troppo lunghi i video, interessanti certo, ma spesso più vicini al documentario che alla video arte.

Padiglione austriaco

I padiglioni nazionali presenti all’Arsenale non sono memorabili, tranne, forse, quello del Cile, con l’installazione Werken di Bernardo Oyarzún costituita da 1.000 maschere Mapuche. Il padiglione Italia ospita tre artisti, Roberto Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò e Adelita Husni-Bey che presentano delle opere site-specific. Inquietante l’opera di Cuoghi: Imitatio Christi è un’installazione degna di un film horror-fantasy in cui vari cristi crocifissi sono protetti da strutture di plastica. Spiazzante quella di Calò, che lavora sullo spazio e sulla percezione della realtà. Soporifero il video di Husni-Bey, che ripropone un workshop in cui un gruppo di giovani parla dei problemi del mondo. Il padiglione cinese, che come sempre offre un ricco buffet preso regolarmente d’assalto, non osa come di solito e va sul tradizionale offrendo al visitatore uno spettacolo live di ombre cinesi con tanto di orchestra: molto pittoresco, ma che c’entra con la Biennale? Nel Giardino delle Vergini spicca l’onirica installazione sonora di Hassan Khan, che culla gli orecchi dei visitatori con suoni degni di un giardino dell’Eden.

Concludiamo la giornata visitando alcuni padiglioni delle nazioni in giro per Venezia. Forse non all’altezza della mostra di due anni fa, comunque si vedono bei lavori nel Padiglione dello Zimbabwe, in particolare i Circles of Uncertainty di Dana Whabira. Ottima esposizione quella di Shirin Neshat, artista iraniana ospitata al Museo Correr che, con The Home of My Eyes, ritratti fotografici di persone residenti in varie regioni dell’Azerbaijan con aggiunta di testi in farsi (purtroppo per noi non comprensibili) e il video Roja, affronta il tema dello “spostamento” delle popolazioni, della paura dello “straniero” e della “terra straniera”. Per concludere la nostra giornata, siamo andati anche all’inaugurazione di Personal structures a Palazzo Bembo: una mostra densa, vivace e stimolante, sebbene quest’anno sembri un po’ più confusionaria del solito.

Tehching Hsieh

Il secondo giorno lo dedichiamo ai Giardini. Dichiariamo subito che alcuni padiglioni non li abbiamo visti, date le lunghe code: tra questi ci siamo persi la Germania, padiglione vincitore, comunque inquietante anche da fuori (non so se ci saremmo entrati, con o senza coda), gli Stati Uniti e il Giappone. Il padiglione centrale si apre con Dawn Kasper, artista che ha spostato il proprio studio in questa stanza: si dovrebbe vederci l’artista al lavoro o a riposo, in realtà si vede solo un gran casino. Carino, ma anche di facile presa, l’atelier di Olafur Eliasson, che si cimenta sul tema dell’immigrazione, facendo costruire a alcuni immigrati, nonché a tutti i visitatori amanti del fai-da-te, delle lampade dal design stile Ikea. Hassan Sharif (Emirati Arabi) mostra invece reperti, avanzi, objet trouvé e sue opere in scaffali da supermarket: interessante l’idea, meno la realizzazione. Tra gli altri padiglioni da citare è sicuramente quello della Francia, dove sono stati costruiti degli spazi in cui è possibile ascoltare performance musicali dal vivo (credo) improvvisate: quella che ci è toccata pareva molto improvvisata e il tutto faceva parecchio déjà-vu. Al padiglione dell’Austria abbiamo passato più tempo che in tutti gli altri: qui dentro chi vuole, seguendo le istruzioni, può installarsi insieme ad oggetti e cose presenti nelle sale creando così delle sculture viventi. Il padiglione moralmente vincitore è però secondo noi quello di Taiwan dove l’artista Tehching Hsieh presenta in Doing Time i risultati di alcune performance durate anni. Hsieh fa parte della scena artistica della Manhattan di fine anni ’70 e primi ’80 e in quel periodo pratica delle performance con regole rigidissime e estreme: in una ha vissuto come un senzatetto per un anno segnando su una mappa giorno per giorno tutte le strade percorse e i soldi spesi per sopravvivere, nell’altra, non so se più estrema, ha timbrato un cartellino di lavoro ogni ora di ogni giorno per dodici mesi, restando quindi praticamente sveglio per un intero anno. Un artista totale, quindi, che concepisce come un tutt’uno l’arte e la vita, e probabilmente la politica, l’economia e la società, strettamente collegate.

Questa era la Biennale vista coi nostri occhi, forse un po’ velocemente considerato il poco tempo che avevamo a disposizione. Ma il tempo, lo sanno tutti, è relativo, come lo sono ovviamente i nostri punti di vista, che speriamo però vi abbiano incuriosito. Perché alla Biennale in fondo ci si va soprattutto per una sana curiosità, per scoprire fino dove l’arte può arrivare, per esplorarne i suoi spazi e i suoi tempi. Non bisogna essere degli esperti del settore, non bisogna essere spaventati se non si conosce il nome dell’artista del momento. Bisogna solo avere voglia di avventurarsi con la convinzione che l’arte può/deve essere per tutti, e forse proprio per questo è davvero viva.

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