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Civiltà del castagno

È arrivato l’autunno e con esso il tempo delle castagne. “Albero del pane”, così viene chiamato nella tradizione popolare il maestoso albero del castagno, che adorna in Toscana i rilievi dalla Lunigiana, la montagna pistoiese, la Garfagnana e il Mugello, fino al Monte Amiata. Questa denominazione calza perfettamente ad una pianta che storicamente, fin dai tempi più remoti, durante i lunghi inverni ha fornito il nutrimento base alle povere genti che abitavano quei luoghi inospitali. Di civiltà del castagno si parla quando si rammentano la raccolta e l’utilizzo non solo dei frutti dell’albero, ma di tutta la pianta. Il tronco fornisce materiale per costruzioni e arredi solido e duraturo, e legna da ardere; i frutti, cioè la castagna o il marrone, oltre ad essere buoni consumati già di per sé bolliti (le ballotte) o arrostiti sul fuoco (le bruciate), fatti seccare e poi macinati danno la farina tipica per la preparazione di molte ricette tradizionali, come la polenta dolce che sostituiva il pane come alimento base, il castagnaccio e i necci. Né va dimenticato l’uso della pianta nella farmacopea officinale, a cominciare dal miele che possiede proprietà medicinali contro la tosse. O ancora la corteccia, da cui si estrae il tannino impiegato nella concia delle pelli.
La raccolta delle castagne, la loro essiccazione nel metato o seccatoio e, infine, la macinazione, erano operazioni stagionali collettive che vedevano riunirsi intere famiglie, i cui componenti potevano finalmente ritrovarsi dopo tanto tempo, tempo speso a lavorare duramente lontano da casa: Policarpo Petrocchi, che fu anche narratore della montagna pistoiese, raccontava a proposito della preparazione dei necci che “fra gli abitanti della montagna, posseditori di qualche selva di castagni, è usanza in estate di far provvista di foglie di questi alberi, perché quando, per annuo cibo, con pura acqua ne sciolgano la farina di essi, e la facciano cuocere fra due testi roventi, possano con quelle foglie coprir d’ogni lato quel dolce impasto, che chiaman neccio, e temperarne il calore della cottura. Per lo che il padrone, armatosi del suo pennato, se ne va al castagneto, vi taglia quei rami che gli sembrano superflui e spogli al tutto di cardi, e, fattone un fascio, li trasporta alla casa, e li depone in mezzo al solaio, dove torno torno stanno seduti quelli di famiglia, e i vicini chiamativi per aiuto. Ivi ciascun da que’ rami sì freschi fa di spiccare a una a una le foglie; ne forma un mazzetto, e di mano in mano lo lega con teneri vincigli; mentre altri que’ mazzetti collega a corona per appenderli nel metato, e serbarli al bisogno. Suol esser questa una delle loro più allegre faccende; perocché a quel tempo son già tornati tutti gli uomini di maremma; e, più che una fatica, potrebbe dirsi un passatempo da veglia.
Al castagno non potevano non essere dedicate opere di letterati famosi, che lo onorano in prosa o in versi: ecco, per esempio, una poesia di Giovanni Pascoli, dalla raccolta Myricae del 1891, sezione Alberi e fiori. Intitolata Il castagno è dedicata a Francesco Pellegrini, amico e revisore del poeta. Ne riportiamo solo la parte finale, lasciando ai lettori che lo desiderino di leggerla tutta qui.
III
Per te i tuguri sentono il tumulto
or del paiolo che inquïeto oscilla;
per te la fiamma sotto quel singulto
crepita e brilla:
tu, pio castagno, solo tu, l’assai
doni al villano che non ha che il sole;
tu solo il chicco, il buon di più, tu dai
alla sua prole;
ha da te la sua bruna vaccherella
tiepido il letto e non desìa la stoppia;
ha da te l’avo tremulo la bella
fiamma che scoppia.
Scoppia con gioia stridula la scorza
de’ rami tuoi, co’ frutti tuoi la grata
pentola brontola. Il vento fa forza
nell’impannata.
Nevica su le candide montagne,
nevica ancora. Lieto è l’avo, e breve
augura, e dice: Tante più castagne,
quanta più neve.

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