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Valentina De’ Mathà o il corpo dell’arte

Ci si può perdere tra le foto presenti sul sito di Valentina De’ Mathà, su Facebook o su MySpace cliccando da un’immagine all’altra, navigando di album in album. E’ un viaggio visivo e mentale in cui sembra di entrare nel suo studio e di poter vedere, toccare, sentire, partecipare come in un reality senza la necessità di sporcarsi con la realtà, essendoci già chi lo fa per noi. Nella grande quantità di immagini a disposizione di chi guarda avviene uno sdoppiamento di senso: quello che a prima vista può essere preso per esibizionismo diventa da un lato estetica, dall’altro azione. Body-art e action painting dis/unite, tendenti all’oltre, alla creazione non di un’icona, né di un idolo, ma di un feticcio: sia che si tratti di immagini che ritraggono l’artista nel suo studio mentre lavora e si riposa, sia che ci si trovi di fronte alle sue opere, sculture, disegni, acqueforti, fotografie, video, abbiamo la sensazione di avvicinarci a qualcosa che si trova più in là. Basta prendere una foto qualsiasi per trovarsi di fronte al dilemma, di caputiana memoria, “se il feticcio sia arte oppure no” o  il suo contrario:  se l’arte sia un feticcio. Gillo Dorfles ha ampiamente riflettuto sulla questione nel suo libro Il feticcio quotidiano, dando diverse chiavi di lettura, ma lasciando ai posteri l’ardua sentenza, ovvero se sarà vera arte: “alcune grandi invenzioni concettuali come quelle di un Duchamp potranno sopravvivere (…) ma non c’è dubbio che in altri casi queste opere vedranno esaurirsi la carica feticistica e idolatrica che ne sanciva il valore artistico e commerciale”. Tuttavia credo che sia comunque importante cercare di capire questa carica feticistica per poter interpretare l’arte contemporanea e la nostra società. Ormai è appurato che il feticcio non appartiene solo alle società “incivili”, ma che è parte integrante anche delle civiltà progredite che si proclamano anti-feticiste. Così non credo di fare un torto a Valentina De’ Mathà se parlo della sua arte in senso feticista: i suoi media artistici sono molteplici, ma sicuramente quello che per primo appare è l’uso del suo stesso corpo, con i suoi tatuaggi, con il suo macchiarsi di vernici, in una sorta di body art che ha le sue origini nelle performance delle modelle-pittrici di Yves Klein, ma che si arricchisce della potenzialità dell’immagine digitale, ovvero versatilità e velocità. Il corpo è un medium artistico come gli altri: sempre chiamando in causa Dorfles “è altrettanto importante e decisivo del colore per la pittura, del suono per la musica, della parola per la poesia”. È importante evidenziare che non si parla più di una questione meramente freudiana di un corpo feticcio e quindi sessuale, come avviene ad esempio nel fenomeno delle Suicide Girls: ci troviamo davanti a ciò che Bruno Latour chiama fatticcio, ovvero l’unione delle parole fatto+feticcio, termine che mescola insieme le loro simili etimologie: “La parola fatto sembra rinviare alla realtà esterna, la parola feticcio alle folli credenze del soggetto. Entrambi dissimulano, nella profondità della loro radice latina, il lavoro intenso di costruzione che permette la verità dei fatti come quella degli spiriti. (…) Il fatticcio propone un comportamento radicalmente differente: è perché è costruito che è così reale, così autonomo, così indipendente dalle nostre stesse mani”. Il gesto artistico, la pennellata, la posizione accovacciata nell’atto di stendere la carta, i piedi intrisi di colore, lo stare seduti nudi sulla chaise longue guardando in macchina, non si congela nell’immagine, ma si fa nell’immagine. È un po’ come nel caso della passione dei giapponesi per la fotografia: immortalare qualsiasi cosa, tutte le persone che si incontrano in vacanza, tutti i luoghi notevoli, ma anche i soggetti più insignificanti, come il tabellone degli orari dei treni alla stazione o il piatto di lasagne ordinato al ristorante, altrimenti è come se il viaggio non fosse mai avvenuto. L’ossessione di Araki Nobuyoshi per lo scatto, è infatti un problema di tempo perché è la quantità che dà la misura dell’esistere e quindi dello scorrere della vita. L’atto stesso di dipingere è importante quanto il suo risultato, lo scegliere di muoversi quanto il movimento stesso. Complice di Valentina De’ Mathà è l’artista e fotografo di moda Roger Weiss che costruisce delle immagini appositamente voyeuristiche ammantate di un’aura amatoriale: l’artificio è però evidente sia nell’uso del colore, sia nelle scenografie così ricche di richiami, a cavallo tra il gusto beatnik di Lennon e Ono e le pagine di moda di Vogue. Anche negli scatti “privati”, mescolati spudoratamente insieme agli altri album, dove si vedono Valentina e Roger come visitatori alla Biennale di Venezia 2009, in una camera di albergo o in vacanza al mare come una coppia qualsiasi di innamorati su Facebook. Come conferma Mario Perniola in La società dei simulacri l’aspetto feticistico pervade, invade, dilaga ovunque ed “è sempre stato presente nella fruizione artistica, si estende nell’arte contemporanea a tutti gli aspetti e i momenti del processo e qualifica lo statuto dei suoi prodotti.”

Davanti agli occhi ho una foto che ritrae Valentina De’ Mathà in una stanza lilla, lei accovacciata, non al centro della foto, ma un po’ più a destra, con le calze blu e le scarpe rosse, le ginocchia che tendono le calze, schiarendole, e il mento posato sulla mano, la bocca socchiusa, lo sguardo fuori macchina, l’occhio destro forse leggermente divergente, i due fiumi di capelli neri che le ricadono a destra e sinistra del volto coprendole il petto. Ma la fotografia continua, l’artista occupa solo una parte dello spazio: un rotolo di cavo elettrico, una prolunga, sta lì al centro della foto, un cavo giallo che passa davanti a lei esce dal campo visivo, rientra e si infila in una presa elettrica alla sua destra; un cavo nero invece esce dalla prolunga e si perde nel fuori campo a sinistra. Una scenografia quasi metafisica, dotata di musa inquietante e oggetti estranianti. Altre foto potrebbero ricordare le muse-modelle di Vanessa Beecroft che de-erotizza il nudo moltiplicandolo e freddandolo nel tempo e nello spazio; tuttavia, mentre nella Beecroft la costruzione dell’immagine è scientifica e calcolata con precisione maniacale nel tentativo di arginare il caos, la De’ Mathà lascia una finestra aperta verso l’ignoto, la magia, il sacro e quindi verso il feticismo pervadente tutto il suo lavoro: le sculture in cartapesta sono corpi disfatti girati verso il muro (di nuovo le statue di spalle di De Chirico), i disegni ad inchiostro sempre di corpi costruiti a grandi gesti, gli astratti che sono dei dettagli di un mondo invisibile ad occhio nudo. Oppure i video dove gli inchiostri diluiti nell’acqua si scompongono lentamente creando figure surreali, o il movimento continuo e senza logica apparente di un lenzuolo che crea forme e allo stesso tempo deforma la percezione. Lo sdoppiamento è visibile anche qui: il corpo nel suo mostrarsi all’occhio voyeuristico che guarda, ma anche la sua totale assenza nel suo celarsi dietro forme astratte e casuali. Tra questi poli sta il corpo dell’arte: il corpo di Valentina De’ Mathà, che si trova al di là di qualsiasi estetica o estatica visione.

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