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Esercizio di comprensione scritta di livello C1/C2: Italiano e filosofia

Ti presentiamo tre quesiti filosofici che sono stati recentemente posti da alcuni lettori al filosofo Umbertoalcibiades Galimberti e di seguito le risposte del filosofo stesso nella sua rubrica settimanale su La Repubblica delle Donne. Abbina a ogni titolo il quesito e la risposta approriata. Rispondi poi alle domande.

L‘arduo sentiero dell’amicizia
Scrive Platone: “Se uno, con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso” (Alcibiade I, 133 a)

Quesito ___

Risposta ___

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Morale e politica
Non è possibile affrontare, e tanto meno risolvere un problema, se non si tiene conto del radicale mutamento del contesto in cui quel problema si pone

Questione ___

Risposta ___

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I giovani e la politica
Kerouac almeno diceva: “Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”. Oggi non c’è neppure più questa sollecitazione

Questione ___

Risposta ___

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Vero o falso?

Secondo il filosofo Galimberti…

  • I principi morali sono minacciati dalle regole del sistema economico attuale, tuttavia sono ancora alla base della nostra società.
  • L’amicizia deve essere intesa come stretto rapporto e confronto tra due persone per conoscersi lentamente, mostrarsi l’una all’altra per poi infine migliorare la conoscenza di sé.
  • I giovani oggigiorno sono ben consapevoli di avere un futuro incerto ma ce la faranno se cercheranno nuovi valori e rifiuteranno la vecchia visione del mondo imposta loro dai loro genitori e dai loro insegnanti.

a) C’è una parola che è rimasta incastrata nei dizionari, su qualche manuale di filosofia, sulle labbra di qualcuno degli ultimi predicatori, bacchettoni di provincia, decaduti filantropi, per assestargli il definitivo colpo di grazia, il Ko che l’ha stesa e confinata in esilio. La parola é moralità. Certo questa mia non sarà una ricerca bigotta di un senso da applicare a questa parola, né tanto meno un ulteriore j’accuse al “lombardo Sardanapalo”, cioè il signor Silvio Berlusconi. Il mio intento è un altro: domandare perché la moralità è stata confinata, alle soglie del XXI secolo, e perché il binomio “moralità e politica” oggi risulta irrealizzabile e anacronistico. Siamo cresciuti – nel senso che abbiamo studiato – la moralità occidentale come legata, in un rapporto di significante simbiosi, alla libertà. Già da Kant abbiamo acquisito l’imperativo: “Devi agire moralmente, perché libero, seguendo la tua legge morale”. I secoli a venire sono stati attraversati da questo legame, da questo percorso di consapevolezza della propria libertà e autodeterminazione, della personale moralità. Ma quel “personale” e quella “libertà” hanno assunto nell’ultimo cinquantennio risvolti grotteschi: la libertà é degenerata in un’esasperante assuefazione a un culto egotista, rendendo vana, vuota, puramente teorica la moralità. O forse, signor Galimberti, é la libertà stessa che nel suo ultimo stadio ha liberato l’uomo dall’alter-ego morale, e oggi egli é finalmente realizzato? O forse l’inganno é intessuto da Kant in quel “La legge morale dentro di me”, inaugurando un percorso individualistico la cui degenerazione é questo tempo? Sono le domande di uno studente liceale alle prese con la “questione morale”, fuori da ogni cronaca giornalistica.

Giuseppe

b) Ho 19 anni e studio storia contemporanea alla Sapienza di Roma. Mi è capitato per caso di ascoltare il passaggio di un suo convegno in cui rispondeva alla domanda sul perché i giovani non pensano alla rivoluzione.
Effettivamente i giovani paiono quieti e non deve impressionare nemmeno l’ondata spontaneista dell’ottobre caldo dello scorso anno, risoltasi in un buco nell’acqua sotto tutti gli aspetti: politicizzazione della “massa” studentesca, empatia umana tra i partecipanti, precise istanze al governo.
Come si può risolvere allora il problema? come si può convogliare la frustrazione e la tristezza di vivere di migliaia di giovani (e meno giovani) in un movimento collettivo e liberatorio?
Sono domande che mi tormentano e questioni che affronto nella trasmissione radiofonica che conduco insieme a un amico sull’emittente web della mia università, un canale che più di nicchia non esiste.
La ringrazio,

David

c) In quest’assurda società, carica di valori inconsistenti, che posto occupa l’amicizia? Non solo, ma aggiungo – forse, con uno spietato senso della realtà – c’è ancora posto per l’amicizia o è stata surrogata da brutte copie di un sentimento che non s’incontra più? Ci sarebbe tanto da dire sul tema in questione, stranamente ancorato alla nozione di tempo che tutti noi abbiamo a disposizione – e che si assottiglia sempre di più – lasciando invero pochi brandelli per quel valore aggiunto che dovrebbe arricchire a dismisura ogni essere umano e che viene invece evitato con fastidio, quasi fosse viziato da un insospettabile retrogusto amaro che di conseguenza ci fa desistere dal valorizzare. Nella vita sciatta di tutti i giorni, noto con triste ripetizione lo sbandieramento quasi sfrontato (e a tratti cafone) di inutili trofei, segno dei tempi, ma non sarebbe più bello se tutti noi potessimo mostrare tanti amici come tratto distintivo di vera ricchezza?

Antonio

Risposte di Umberto Galimberti:

1) Del rapporto tra la morale e la politica si discute dal tempo di Platone, quando la filosofia greca ha inaugurato questi due scenari che nel corso della storia sono entrati spesso in conflitto fra loro. Per il mondo greco, morale e politica non potevano che coincidere, dal momento che, come scrive Aristotele nella Politica, “gli uomini hanno lo stesso fine sia collettivamente sia individualmente, e la stessa meta appartiene di necessità all’uomo migliore e alla costituzione migliore”. Con l’avvento del cristianesimo l’individuo si separa dalla società, perché alla sua individualità, alla sua “anima” si prospettano un destino ultraterreno in cui l’individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione. Alla vita collettiva, regolata dalla politica, è affidato il compito di creare le condizioni per la realizzazione del bene individuale, quindi il compito della limitazione del male. In questo modo la realizzazione individuale (la morale) viene separata dalla realizzazione sociale (la politica), e, in nome della sua interiorità e della sua destinazione ultraterrena, l’individuo cristiano prende a vivere, come scrive Agostino nel De civitate Dei, separato nel mondo, e poi dal mondo. Questa è anche la ragione per cui Rosseau scrive nel Contratto sociale che “il cristiano non é un buon cittadino”: lo può essere di fatto, ma non a partire dalle sue credenze. La filosofia greca e la tradizione giudaico-cristiana, che sono le due radici dell’Occidente, hanno deciso di volta in volta, e con vicende alterne, di dare il primato alla morale o alla politica, fino al giorno in cui la tecnica, divenuta il vero soggetto della storia, ha subordinato a sé sia la morale, sia la politica, rendendo tutte le discussioni relative al primato dell’una o dell’altra questioni subordinate. Per quanto concerne la morale, come opportunamente scrive Emanuele Severino in Il destino della tecnica (Rizzoli): “Come fa la morale a impedire alla tecnica, che può, di fare ciò che può?” E ancora, aggiungo io: come può una morale, i cui princìpi discendono dalla natura concepita come immutabile, valere nell’età della tecnica che ha risolto la natura in materia prima, in ogni suo aspetto manipolabile? La politica, a sua volta, non è più il luogo della decisione, perché per decidere la politica guarda l’economia, e quest’ultima, per decidere i suoi investimenti, guarda le risorse tecnologiche. Per cui il luogo della decisione si è spostato dalla politica alla tecnica. Questo spiega tutte quelle scorribande in sede politica e in sede morale, che sempre più appaiono, purtroppo, luoghi inessenziali al corso della storia. Non dico queste cose con piacere, ma mi pare necessario segnalare il mutamento dello scenario in cui l’antico problema del rapporto tra morale e politica oggi si presenta: per evitare discussioni che diventano inutili se non si prende atto del mutamento radicale del contesto.

2) Più la società diventa di massa – o nella forma di quella solitudine che ci incolla davanti a un computer vittime di una bulimia affettiva, per cercare non tanto amici quanto riconoscimenti della propria identità che non sappiamo dove altro reperire, o nelle adunate di massa in occasione di concerti, o davanti a teleschermi per i grandi eventi, o per applaudire parole che confermano le idee che già abbiamo o la fede che già possediamo – più l’amicizia diventa difficile e impraticabile. A meno di non intendere con questa parola amori che non si ha il coraggio di intraprendere, rapporti coniugali resi esangui dall’abitudine, conoscenze utili a scambi di favori, relazioni un po’ ipocrite e un po’ convenzionali nella speranza che un giorno possano tornare vantaggiose.
Oggi conosciamo solo il singolare e il plurale. Così vuole la nostra grammatica. Nel singolare incontriamo la solitudine dell’anima che vagheggia mondi e ideazioni che mai avremmo il coraggio di rivelare in pubblico, che si inabissa in dolori che la buona educazione ci induce a non manifestare, che si esalta in entusiasmi che sfuggono a ogni misura e moderazione. Al singolare conosciamo quello che nel pubblico verrebbe rubricato come eccesso o follia. Anche se è proprio questa follia a darci vita, senso e spessore.
Al plurale dobbiamo dar prova di sano realismo che ci chiede di stare ai fatti, di controllare le emozioni, di misurare le parole, di essere più una risposta agli altri che propriamente noi stessi. E tutto questo per essere accettati, riconosciuti, identificati, e nei casi estremi persino applauditi.
Ma l’amicizia disabita il singolare e il plurale, perché conosce unicamente il duale, con cui gli antichi Greci coniugavano le loro forme verbali quando il discorso era fra due, carico di quella valenza simbolica del linguaggio che ben conoscono gli innamorati in quel breve periodo in cui non riescono a concepire se stessi senza l’altro.
Tra l’anonimato del pubblico e la solitudine del privato, l’amicizia, che abita il duale, consente di comprendere tutte quelle eccedenze di senso che nel segreto la nostra anima crea. Eccedenze che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia, mentre nell’ascolto accogliente dell’amicizia possono dirsi e, invece di restare soffocate e inespresse, svelare la nostra intima verità.
Per questo, penso, non si possono avere molti amici, come invece lei si augura, ma solo quei pochissimi che corrispondono alle sfaccettature della nostra anima, a cui svelare il nostro segreto che l’altro segretamente custodisce. Non per confidarci o cercare consenso o conforto, ma per vedere che cosa nella comunicazione duale il segreto ha da svelarci. Silenziosamente, a poco a poco, incontro dopo incontro. Perché così chiede il ritmo dell’anima, che vuol dirsi e insieme custodirsi, per non spegnere le sue creazioni e nello stesso tempo non disperderle nel rumore del mondo.
Se questa è l’amicizia, la nostra cultura, che conosce solo l’anonimato del pubblico e la solitudine del privato, non è la più idonea a favorire quell’incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso, e che lo sguardo accogliente dell’amico potrebbe incominciare a raccontare e a delinearne i contorni. Perché in fondo è la scoperta di noi quello che l’amicizia favorisce e propizia.

3) Quel passo del mio intervento non era un invito ai giovani alla rivoluzione, che talvolta è necessaria, basti pensare che l’Europa non si sarebbe liberata dall’assolutismo senza la rivoluzione francese e la Russia dal feudalesimo senza la rivoluzione bolscevica, che poi è degenerata in un assolutismo forse peggiore del feudalesimo. Quel passo del mio intervento considerava il fatto che la “rivoluzione”, se così vogliamo chiamarla, del Sessantotto è stata avviata da giovani che si trovavano in una condizione decisamente migliore dei giovani di oggi, perché, a differenza di questi avevano un futuro. Chi si laureava, se voleva, sapeva di trovare un impiego corrispondente ai suoi studi, chi lavorava non doveva imboccare il percorso infinito dei lavori precari. Con l’impiego o con il lavoro ci si poteva comprare una casa senza necessariamente l’aiuto oggi indispensabile dei genitori; si poteva, sempre se si voleva, fare famiglia. In una parola il futuro era una promessa e non una minaccia come appare ai giovani di oggi. Naturalmente, quando non è una promessa, il futuro non retroagisce come motivazione all’impegno, allo studio, all’investimento sulle proprie capacità. I genitori per motivare i figli devono diventare con loro contrattuali. Premiare ogni successo e rassegnarsi agli insuccessi. In questo modo perdono autorità. E i giovani sono affamati di segnali autorevoli che raramente reperiscono in genitori esautorati e in insegnanti molto speso rassegnati e talvolta demotivati.
Eppure, affogati in un mare di demotivazione, sfiducia e – non di rado – sconforto, i giovani d’oggi non manifestano il loro disagio, che pure traspare nelle loro giornate piene di inedia e nelle loro notti insonni, caratterizzate da un’euforia un po’ drogata, che lascia trasparire tutta la loro insoddisfazione, alla ricerca di un’identità che non trova espressione se non nell’ambito dei modelli offerti dalla moda e dalla pubblicità.
L’impegno politico non attrae i giovani di oggi. E questo è un sintomo che dice essersi ormai stratificata in loro la persuasione che nulla può cambiare, per cui tanto vale vivere con intensità e ed estrema vitalità l’assoluto presente, perché il futuro non è nelle loro mani, e quindi neppure nelle loro prospettive. E siccome la politica è innanzitutto sguardo al futuro, tensione ideale e soprattutto progetto in cui incanalare il desiderio, il desiderio si estingue e la coltre opaca e buia della noia colora lo sguardo dei giovani, il loro linguaggio, il loro gesto stanco, quando non violento, per seppellire insoddisfazione e noia.
A tutto ciò si aggiunge che sono venuti meno i luoghi di socializzazione, dagli oratori alle sezioni di partito, per cui l’unico luogo di ritrovo resta il bar. E cosa si fa al bar? Si beve. E non basta il divieto di vendita degli alcolici ai minori, perché, paradossalmente, il loro bere fa parte dei rimedi a portata di mano per non vedere la loro scarsa se non nulla rilevanza sociale, la loro non incidenza e impotenza a trasformare il modo di vivere e di fare società. Tutto questo si chiama “nichilismo”, da imputare non al fatto che sono crollati i valori (il progresso della storia è sempre stato determinato dalla trasmutazione dei valori), ma al fatto, come opportunamente ci ricorda Nietzsche, che “manca lo scopo, manca il perché”, e forse anche la forza, la fiducia che qualcosa possa cambiare.
E non basta l’ottimismo che i nostri canali televisivi ogni giorno cercano di diffondere, perché il pessimismo e la sfiducia sono ormai dentro l’anima, e la consumano privandola di slanci e ideazioni.
Siccome il disagio giovanile oggi non è tanto “esistenziale” quanto “culturale”, avremmo bisogno di una politica che non sia solo una difesa strenua di interessi, o peggio di clientele, ma sappia offrire se non una nuova visione del mondo, la fiducia almeno che non tutto è immodificabile. Perché questa è la vera stagnazione, prima ancora di quella economica.

L’arduo sentiero dell’amicizia
Scrive Platone: “Se uno, con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso” (Alcibiade I, 133 a)

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